La verità? L’etichetta “bio” non garantisce cibo migliore. Ma costa il 47% in più del normale.

 

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La verità? L’etichetta “bio” non garantisce cibo migliore. Ma costa il 47% in più del normale.

 

Il comparto del biologico è in continua crescita, con 400mila ettari in più all’anno coltivati e un mercato di oltre 33 miliardi di euro annui nella sola Unione europea. I consumatori vi si rivolgono con fiducia, ma, tra luoghi comuni, fake news e battaglie ideologiche, è difficile capire cosa si intenda esattamente per biologico. Bisogna rifarsi al Regolamento europeo che si riferisce a un “Sistema globale di […] produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali”.

La definizione è vaga e lascia molti dubbi, tra cui quelli sulla sostenibilità della produzione su larga scala: uno studio del 2010 dell’università canadese di Guelph, comparando pesticidi comunemente usati negli Stati Uniti nelle coltivazioni di soia, indicava che le sostanze ammesse nel bio devono essere impiegate in quantità massiccia per essere efficaci, diventando più impattanti sul terreno. Infatti, per ottenere dalle colture organiche rese pari a quelle convenzionali, senza impiegare le stesse quantità e tipologie di pesticidi, bisogna ottimizzare l’irrigazione, spesso inefficiente, e fertilizzare i terreni con un modello che abbini campi e allevamenti organici, al momento poco diffuso.

Ma quanto è diverso il bio dal settore agroalimentare convenzionale? Troppo poco per gli eurodeputati italiani che l’anno scorso hanno espresso voto contrario sul nuovo regolamento perché poco restrittivo, soprattutto per quanto riguarda residui di fitofarmaci, importazioni e contaminazioni accidentali con sostanze non biologiche. La normativa europea vigente sui prodotti trasformati ammette ingredienti agricoli non organici in certi casi (“se non c’è alternativa” ad esempio) e prevede deroghe ai limiti (tra gli altri, se l’azienda si sta riprendendo dopo una calamità, o in fase di conversione). Lo stesso vale per additivi, aromi, ausiliari di fabbricazione, minerali, oligoelementi e preparazioni con microrganismi ed enzimi, vitamine e amminoacidi. Nell’allevamento si possono introdurre alcuni individui (uno all’anno su un totale di dieci esemplari) di origine convenzionale se i capi bio non sono disponibili in numero “sufficiente”, purché si allevino con metodi organici dallo svezzamento, mentre nei mangimi sono ammesse sostanze non biologiche (per suini e specie avicole fino a un 5% all’anno sul peso a secco di mangimi proteici). Pratiche come il taglio della coda, delle corna e la castrazione, in uso nell’allevamento industriale, sono ammesse adalcune condizioni, anche se la normativa stabilisce vagamente l’obbligo di ridurre al minimo le sofferenze degli animali.

 

Oltre a eccezioni e deroghe,  la normativa vigente ammette la pratica parallela di coltivazione o allevamento sia biologici che convenzionali, pur separati tra loro e “facilmente distinguibili”. Non ci sono indicazioni precise sui modi per prevenire la contaminazione tra le due: non vi è dunque garanzia di non contaminazione con sostanze ammesse nell’agricoltura convenzionale, tra cui il glifosatoancora autorizzato dalla legge italiana – ma appena vietato dal Consorzio di tutela del prosecco Conegliano Valdobbiadene Docg – e sulla cui proroga di utilizzo si dovrà decidere a breve. Oltre al glifosato, resta il consenso per l’utilizzo di altre sostanze di sintesi, alcune delle quali (come il Mancozeb o il Fluazinam) sospettate di nuocere alla fertilità, alla salute del feto durante la gravidanza, agli organi interni e agli occhi in caso di esposizione prolungata. Il rischio è che non sia garantita quella assenza di residui pericolosi che le analisi riconoscono tra le caratteristiche principali del comparto biologico. Inoltre, i prodotti contaminati accidentalmente possono comunque ottenere la certificazione bio, dato che i singoli Paesi membri dell’Ue avranno la possibilità di seguire le proprie normative nazionali: in Italia, dove le soglie autorizzate per l’impiego di additivi chimici sono più basse, quei prodotti non potranno essere commercializzati nel mercato nazionale, ma potranno essere esportati.

Non è poi chiaro su cosa si basi il limite all’uso di prodotti chimici in agricoltura: rame e zolfo, ad esempio, sono prodotti con sintesi chimica (solfato di rame, impiegato come battericida e fungicida) o sono il prodotto di scarto della raffinazione del petrolio (zolfo). L’agronomo Alberto Guidorzi sottolinea inoltre come l’insetticida Spinosad, usato in campo biologico, abbia le stesse caratteristiche chimiche del Calypso, che è stato messo al bando: il primo è un decotto delle pianta che produce il principio diserbante mentre il secondo ha lo stesso principio attivo, ma prodotto per sintesi. La quantità di rameautorizzata nelle coltivazioni organiche è stata ridotta nel 2018 per legge dai precedenti sei chili per ettaro all’anno, a un massimo di 28 chili totali nell’arco di sette anni. Per quanto già “candidati alla sostituzione”, non sono state trovate alternative ai fitosanitari a base di rame, metallo pesante potenzialmente dannoso, che in agricoltura convenzionale era utilizzato senza limitazioni, fino all’introduzione della nuova normativa europea nel 2018: dei 743 prodotti fitosanitari registrati (cioè le marche, dato che sotto nomi diversi possono essere commercializzate le stesse sostanze), ammessi nell’agricoltura convenzionale contro la peronospora su uva da vino, il 46% contiene rame. Se da un lato questo elemento si accumula nel terreno danneggiando la vita microbica e contaminando le falde acquifere, per il bio resta una difesa efficace contro la diffusione di infezioni fungine e batteriche, soprattutto per la vite, di cui Slowine denuncia il rischio di un calo della produzione.

Vi sono sostanze che non devono ottenere autorizzazione alla commercializzazione, come propoli, bicarbonato, oli vegetali alimentari, aceto, lecitina, sapone di Marsiglia e calce, purché siano usati come “corroboranti, biostimolanti e potenziatori delle difese delle piante”. Questo cavillo rende possibile aggirare la normativa: lo fa il fosfonato di potassio, ammesso in quanto fortificante per la pianta e non prodotto fitosanitario, come denuncia Il Punto Coldiretti. Per essere certi dell’impatto della propria alimentazione sull’ambiente non basta verificare provenienza e ingredienti: si dovrebbero conoscere le sostanze impiegate per coltivare grano, riso, pomodori, che però non sono indicate nell’etichetta dei prodotti. Questa usa esplicitamente il termine “biologico”o vi si riferisce con termini che lo suggeriscono (“bio”, “eco”, “organico” o simili), se almeno il 95% del peso degli ingredienti di origine agricola (che a loro volta devono essere almeno il 55% del loro peso totale, escludendo acqua e sale aggiunti) è biologico. Quanto alle indicazioni, il logo non basta: devono essere indicati anche il codice dell’organismo di controllo autorizzato da Ministero per le Politiche Agricole e il codice dell’operatore controllato. Se non ci sono, non è bio, ma una frode.

La contraffazione dei prodotti è un business che fa gola a molti, considerato che i prodotti bio costano in media il 47% in più degli analoghi convenzionali. È il caso dell’azienda Liuzzi, in provincia di Foggia, raccontato nella puntata di Report del 10 ottobre 2016: il responsabile aveva venduto 10.500 tonnellate di grano convenzionale come biologico, dopo averlo acquistato in contanti da terzi; venduto ai maggiori mulini italiani del biologico, il grano era stato usato per preparare pasta in gran parte esportata all’estero. Una volta scoperta la truffa mesi dopo, una piccola parte dei prodotti è stata ritirata dal mercato, ma la maggior parte era già stata venduta e consumata, con un enorme danno economico e di credibilità di tutto il settore. Dato che le indicazioni del regolamento europeo circa i controlli sui certificati presentati dalle aziende sono molto precise, pare che a non funzionare in questo caso siano stati gli organi di controllo, che non hanno applicato il regolamento o lo hanno fatto tardivamente.

Quanto alle importazioni, si apre un capitolo a parte. I prodotti importati da Paesi terzi fino al 2021 possono essere commercializzati nell’Unione come bio se rispondono a norme di produzione equivalenti a quelle europee. Quando entrerà in vigore la risoluzione votata lo scorso anno ciò non sarà più possibile: le importazioni dovranno infatti adeguarsi alle norme di produzione previste da Bruxelles. Ma rimarranno le eccezioni come, ad esempio, gli scambi nel contesto di accordi commerciali bilaterali. L’indicazione della provenienza dei prodotti agricoli è obbligatoria solo in termini vaghi: “Ue”, “non Ue” o, se mista, “Ue/non Ue” e/o indicazione dei Paesi di coltivazione delle materie prime. Qualora tali importazioni non seguissero le normative europee, potranno comunque utilizzare il marchio con la foglia e le stelle dell’Unione europea che identifica il biologico in caso di “condizioni climatiche e locali specifiche” non meglio specificate e “al fine di evitare interruzioni nell’approvvigionamento di tale prodotto specifico”, come denunciato da La Stampa. Anche per il Sinab, Sistema informatico nazionale per l’agricoltura biologica del ministero dell’Agricoltura, è difficile stabilire le esatte percentuali in commercio di prodotti biologici italiani e di quelli importati.

L’ultima ambiguità dell’universo bio è forse più che altro un limite dei consumatori, poco abituati a leggere le etichette e le liste di ingredienti: l’equivoco – per mancanza di approfondimento o per successo del marketing – sta nell’aver recepito l’idea che biologico sia sinonimo di più nutriente e nello scandalizzarsi quando alcuni studi smentiscono questo assunto, trovando al massimo più antiossidanti e meno residui chimici nei prodotti organici e più proteine nei convenzionali. Anche le definizioni di agricoltura convenzionale e agricoltura biologica riuniscono orientamenti e tecniche diversi. Il frainteso sta nel credere che la certificazione biologica sia uno standard di qualità (mentre certifica semplicemente un metodo di produzione) che garantisce l’assenza nei cibi delle controindicazioni della lavorazione industriale come la presenza di grassi, zuccheri, addensanti e altri additivi.

Nell’agricoltura biologica (come in quella convenzionale) operano entità corporative che, come in ogni industria, rispondono alla domanda dei consumatori, e non – o almeno, non nella maggior parte dei casi – degli attivisti in lotta contro l’impatto ambientale dell’agricoltura convenzionale. Ai cittadini va garantita la possibilità di approfondire con trasparenza, senza fermarsi di fronte a termini come naturale o Ogm: di per sé le parole non sono garanzia di bontà e sicurezza né di pericolo. Documentarsi è responsabilità del singolo consumatore, ma prima ancora del legislatore, che deve imporre la massima trasparenza e i dovuti controlli, e delle aziende, che devono lavorare con onestà e nel rispetto delle regole: solo in questo modo si può avere la garanzia di fare le giuste scelte per la propria salute e quella dell’ambiente.

 

fonte: https://thevision.com/scienza/biologico-costoso-trasparenza/

La verità? L’etichetta “bio” non garantisce cibo migliore. Ma costa il 47% in più del normale.ultima modifica: 2019-09-01T18:52:23+02:00da eles-1966
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