Il sentiero delle lacrime – L’infame deportazione degli indiani Cherokee, ancora una volta traditi dall’uomo bianco…

 

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Il sentiero delle lacrime – L’infame deportazione degli indiani Cherokee, ancora una volta traditi dall’uomo bianco…

 

Il sentiero delle lacrime – Accadde il 12 febbraio 1822

Nel 1822 i Cherokee possedevano un patrimonio di 22.000 bovini, 46.000 suini, quasi 8.000 cavalli e 2.500 ovini. Avevano anche più di 750 telai per la filatura, 170 carri e poco meno di 3.000 aratri per dissodare il suolo. Raccoglievano il cotone dalle loro piantagioni servendosi anche – come facevano gli Americani – di parecchie centinaia di schiavi, soprattutto neri. Secondo un dato del 1830, infatti, le Cinque Nazioni Civilizzate (Cherokee, Creek, Choctaw, Chickasaw, Seminole) possedevano circa 3.000 schiavi, in ragione di uno ogni 15 abitanti.
Ma il loro progresso non si limitava alla crescita economica e materiale.
Fra i Cherokee erano state istituite 18 scuole, abitazioni ed abbigliamento imitavano lo stile dei Bianchi ed esisteva una rete di strade e collegamenti acquatici, questi ultimi sviluppati lungo fiumi a canali solcati da 18 navi-traghetto e da numerose barche e chiatte.
A ciò si deve aggiungere che, nel 1821, un uomo di nome Sequoya aveva ideato un alfabeto destinato a rivoluzionare la cultura della sua nazione.

Attraverso l’operato di ben tre presidenti americani prese corpo il progetto della deportazione in massa, oltre il Mississippi, di tutte le tribù pellerossa, volenti o nolenti. L’idea nacque al tempo di Jefferson (1812) ma la decisione vera e propria fu presa dal presidente Monroe (che pure non odiava gli indigeni) nel 1825. L’avvio della deportazione (1830), però, porta la firma di “Uccisore di Indiani”, il presidente Andrew Jackson.

Per buona misura dobbiamo ricordare che lo stesso Jackson ebbe salva la vita in conflitto grazie all’intervento di un guerriero Cherokee che uccise un Creek che lo stava per ammazzare e proprio i Cherokee ebbero a soffrire maggiormente a causa di Jackson.

Jackson promulgò il “Removal Act”, una legge con la quale imponeva a tutti gli indiani dell’est di trasferirsi a ovest.

Cadeva, dunque, la maschera della volontà di civilizzazione dei popoli rossi; in realtà vinceva l’egoismo di chi desiderava la terra degli indiani, specialmente se c’era il fondato sospetto che vi si potesse trovare oro in grandi quantità. Il Removal Act sospingeva le tribù, le più diverse per lingua, tradizioni e comportamenti, verso l’Oklahoma che sarebbe stata la loro nuova patria. Il trasferimento durò anni, costò migliaia di vite (perse durante il doloroso cammino) e non risolse certo i problemi. Dei circa centomila indiani coinvolti solo due terzi si incamminarono mentre gli altri scelsero di lottare in clandestinità, nascosti tra le montagne dove non costituirono comunque un gran problema.

I Delaware subirono l’onta per primi dal 1831 al 1834, trasferiti su carri e battelli nei quali morirono come mosche. Specialmente i bambini!

Li seguirono gli Shawnee, dopo aver lottato inutilmente. I Potawatomi non vollero accettare supinamente il triste destino dell’abbandono delle loro terre; ci pensarono i soldati con l’uso delle armi.

I Winnebago partirono in 2000 e arrivarono in circa 1200, decimati dalla fatica, dalle malattie e dall’alcool che gli veniva propinato lungo la strada da commercianti bianchi senza scrupoli, interessati soprattutto a rubare i denari stanziati dal governo a guisa di risarcimento.

Quasi tutti furono costretti a partire durante l’autunno o l’inverno e molte tribù fecero la conoscenza del vaiolo prima ancora della partenza. I Mandan, ad esempio, non ebbero necessità di spostarsi dal momento che un’epidemia di vaiolo – accuratamente procurata loro dai bianchi a mezzo di coperte infette – li ridusse dell’80%.

Le grandi nazioni indiane del sud – Cherokee, Chickasaw, Choktaw e Creek – subirono più di altri l’ingiustizia del Removal Act. I Cherokee erano l’esempio ideale di indiani ormai civilizzati. Coltivavano 130mila Km quadrati di terra fertile sulla quale allevavano ogni genere di bestiame, vivevano più a lungo dei bianchi della Georgia (lo stato che voleva le loro terre), avevano un loro alfabeto (grazie al lavoro di Sequoiah, un Cherokee) e stampavano un giornale in due lingue.

Il governo americano spinse molto sui Cherokee affinché partissero presto proprio per quel che rappresentavano agli occhi delle altre tribù; se accettano loro – si pensava – anche gli altri li seguiranno. In quel periodo i Cherokee erano rappresentati da John Ross, un uomo estremamente civilizzato che amava operare a Washington rapportandosi con il governo, usando la legge dei bianchi in maniera molto appropriata.

Nel 1834 i Cherokee intentarono un ricorso contro la Georgia presso la Corte Suprema che gli diede persino ragione! Il presidente Jackson, però, incoraggiò la Georgia a trascurare la Corte Suprema, cosa che venne presto fatta.

John Ross e ben 16.000 Cherokee scrissero e firmarono una petizione al parlamento in cui, tra l’altro, gridavano: “Siamo privi della nostra nazione! Non siamo più membri della famiglia umana! Non abbiamo più un paese, un focolare, un luogo che possiamo chiamare nostro! Siamo soffocati!”

Non bastò e il parlamento ratificò l’accordo di New Echota: i Cherokee dovevano partire.

Partirono in 18mila ma 2.500 morirono di freddo e di stenti perché, come sempre, si impose la partenza in pieno inverno. Altri morirono a causa del colera che si scatenò  a causa dell’inquinamento delle acque indotto da una concentrazione troppo alta di persone lungo i corsi d’acqua. I soldi del risarcimento, ancora una volta, furono rubati da astuti imbroglioni bianchi e le tribù attesero ben cinquant’anni per avere una qualche forma di giustizia.

La Confederazione dei Creek pagò un altissimo tributo di vittime alla Pista delle Lacrime: ben 3.500 uomini, donne e bambini persero la vita lungo il viaggio. I Creek erano poverissimi e viaggiarono su carri scoperti nei quali i bambini letteralmente gridavano per il freddo. I vari viaggi venivano organizzati perché partissero alle 4 del mattino, in inverno.

 

 

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