Chi ci guadagna se la Terra muore?

 

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Chi ci guadagna se la Terra muore?

 

Ogni anno il calcolo drammatico dei milioni di morti, dei milioni di profughi ambientali, di danni per centinaia di miliardi di euro, di economie locali e attività spazzate via dagli effetti dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica in generale sono in costante aumento.

Ogni anno, l’overshoot day, il giorno in cui consumiamo prima del tempo tutte le risorse e i servizi ambientali gratuiti che la Terra può garantirci e generare per farci vivere e progredire arriva sempre prima. È stato il 2 agosto quest’anno, nel 1970 era il 29 dicembre.

In meno di cinquant’anni abbiamo contratto un deficit ecologico enorme con il pianeta, che si traduce in maggiori disuguaglianze, ingiustizie sociali e ambientali e meno opportunità di vita per tutti. Senza parlare delle ingiustizie che compiamo nei confronti delle future generazioni a cui lasceremo un mondo più povero e inquinato. A un passo dal punto di non ritorno, Giuseppe De Marzo, attivista da anni nelle reti sociali, nei movimenti italiani e in America latina al fianco delle popolazioni indigene e rurali, ha scritto “Per amore della Terra”, libro in cui punta il dito contro chi ci ha portato fin qui.

La politica, o chi ci governa, forse non ha interesse a intervenire, altrimenti non saremmo in questa situazione.
La verità è che oggi, specie in Occidente, anche se in apparenza vi è pluralismo politico, siamo davanti a un pensiero unico che domina tutti gli altri. Il modello economico liberista, quello in cui siamo tutti costretti, è insostenibile sul versante sociale e ambientale: l’obiettivo di continuare a fare profitto teorizzando la possibilità di una crescita economica infinita a fronte di un pianeta con risorse finite è pura idiozia! Ma su questa idiozia purtroppo si basano le scelte politiche, comprese quelle nostrane. Dobbiamo lavorare per costruire un pensiero politico che attraverso la riconversione ecologica delle attività produttive e della filiera energetica possa garantire allo stesso tempo giustizia ecologica, ambientale e sociale, cioè lavoro, reddito, coesione, diritti, rispetto della vita intorno a noi e pace.

Il punto di non ritorno è un aumento di oltre 2° della temperatura in questo secolo. Per evitarlo dovremmo ridurre entro il 2020 del 40% le emissioni globali, un obiettivo reso ancora più difficile dagli scettici sul clima che guidano Stati Uniti, Brasile e Australia.
L’ex presidente Obama diversi anni fa affermò quello che la scienza sapeva da tempo: la più grave minaccia all’umanità sono i cambiamenti climatici. Allora perché chi deve prendere decisioni su questi aspetti continua nella realtà a sostenere un modello economico fondato su attività produttive e su una filiera energetica che aumentano la produzione di CO2 nell’atmosfera e che contribuiscono a innalzare ulteriormente la temperatura del pianeta? Se siamo su una barca e tutti sappiamo che stiamo procedendo sugli scogli ma chi comanda non gira il timone, che cosa penseremmo? Dovremmo intervenire per cambiare rotta? È nostra responsabilità oltre che diritto.

Quanto ha pesato e pesa il potere delle multinazionali nella corsa verso l’autodistruzione?
Pesa eccome, ma il loro potere può essere contrastato e fermato. Oggi abbiamo una politica completamente asservita agli interessi della governance liberista e, dunque, delle élite economiche e finanziarie di cui fanno parte anche le grandi multinazionali. Se guardate le norme promosse e votate in giro per l’Europa e per il mondo, avrete la conferma che sono state fatte per difendere gli interessi delle élite e non quelli di chi è stato colpito dalla crisi ecologica e sociale, cioè i ceti medi e popolari. Lo sapevate che in Italia la povertà assoluta e relativa è triplicata in 10 anni, ma allo stesso tempo è triplicato il numero dei miliardari? Secondo Oxfam sono circa 112 e la stessa tendenza avviene in tutta Europa. La verità è che oggi il liberismo per fare profitto produce crisi ecologica, cambiamenti climatici, ingiustizie sociali e ambientali. Non può adattarsi per sua natura e mission, né mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, unica strada per affrontarli. Costerebbe tutta la fetta del guadagno e del potere. Riconvertire conviene ai piccoli, ai nuovi, alle reti, ma non ai colossi. Fare una bomba, un’arma di distruzione, un grattacielo, un virus, una guerra, genera Pil. Il problema è che questa crescita non misura altri dati che, se presi in considerazione, dimostrerebbero come in realtà non si produca ricchezza, ma l’esatto opposto. Si distruggono la ricchezza e le basi per riprodurla.

Perché in Italia mancano azioni di disobbedienza civile come quelle organizzate in Gran Bretagna da Extinction Rebellion?
Anche nel nostro paese esiste una geografia della speranza, ma spesso non viene raccontata perché la maggior parte dei media sono controllati da quegli stessi gruppi che non hanno interesse a raccontare le alternative, né a dare luce a quei soggetti impegnati a favore della giustizia ecologica, ambientale e sociale. Sono quelli che fanno soldi con gli oleodotti, l’inquinamento, le bombe, i tumori e la chimica: come poter pensare che daranno a noi spazio? Del resto le nuove soggettività politiche, quelle che rappresentano l’unica speranza dell’umanità, non sono certo i governi, i vecchi partiti o l’accademia. Sono i movimenti per la giustizia ambientale che hanno capito che l’unica maniera per garantire i diritti e la giustizia sociale sta nel garantire la giustizia ambientale ed ecologica. Anche da noi ci sono e sono tanti. Ma non se ne vuole parlare.

Pensiamo al presente. Che fare? Da dove iniziare?
Sicuramente promuovere politiche che diano risorse maggiori all’istruzione pubblica a tutti i livelli. Ricordo che il nostro paese è tra quelli che investe meno in istruzione e avevamo invece una delle migliori scuole e università pubbliche. C’è un’attinenza tra quello che denuncia il Censis nel suo 52° rapporto sul paese in cui si parla di “sovranismo psichico”, analfabetismo e rancore diffuso tra gli italiani e i tagli alla cultura e al sociale in questi anni? Evidentemente sì. Un popolo ignorante e affamato è incattivito e cinico.

Qual è una cosa piccola che può mettere in pratica ciascuno di noi per invertire la rotta?
Ogni piccola azione che difende e allarga la comunità della vita è bene. Ogni azione che costruisce alleanze sociali in funzione della difesa del bene comune è bene. Ogni azione che distribuisce e disperde il potere tra più persone, costruendo tra di esse una corresponsabilità è bene. Ogni minuto passato a dare una mano a chi è rimasto indietro, con chi soffre, che ci avvicina all’unico dovere richiamato nella Costituzione, il dovere alla “solidarietà”, è bene. Ogni gesto, anche il più piccolo, rafforza e costruisce la speranza anche quando pensiamo che non serva. Perché noi non siamo parte della terra ma siamo la Terra.

 

Chi ci guadagna se la Terra muore?ultima modifica: 2019-02-05T20:31:32+01:00da eles-1966
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