16 giugno 1976 – La rivolta di Soweto, la strage che portò la fine dell’apartheid

 

Soweto

 

 

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16 giugno 1976 – La rivolta di Soweto, la strage che portò la fine dell’apartheid

 

Il 16 giugno del 1976 a Soweto, un quartiere nell’estrema periferia di Johannesburg, costruito alla fine della Seconda Guerra mondiale e abitato quasi esclusivamente da neri e indiani (arrivati nella metropoli sudafricana per lavorare nelle miniere), morirono centinaia di persone. Erano per la maggior parte studenti che avevano deciso di protestare contro il governo, senza sapere che sarebbero andati incontro al massacro della polizia.

I MOTIVI DIETRO LA PROTESTA – Cosa aveva portato i giovani per le strade? Un decreto governativo entrato in vigore nel 1975 obbligava tutte le scuole nere del Paese a utilizzare per l’insegnamento l’inglese e afrikaans, una lingua germanica derivata dall’olandese, vista dai neri “la lingua degli oppressori”. Il Ministro per l’Istruzione Punt Janson disse, scatenando la rivolta di studenti e docenti neri: «Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un “capo” che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue». Contro il provvedimento venner, quindi, organizzati una serie di scioperi e, il 16 giugno 1976, 20mila giovani delle scuole nere di Johannesburg organizzarono una vera e propria marcia verso lo stadio di Orlando. I manifestanti scelsero la linea pacifica e nelle prime file del corteo esposero cartelli con scritte come: “Non sparateci, non siamo armati”.

Ma quando si trovarono faccia a faccia con la polizia, cominciarono le violenze. Tra le persone che persero la vita c’era anche Hector Pieterson, un bambino di 12 anni (ricordato da una stele all’esterno del Museo dell’apartheid di Johannesburg, costruito nel 2002, e visitato da uno degli autori di questo blog). La foto dello studente che lo porta in braccio, morto, racconta il Guardian, venne scattata da Sam Nzima, e contribuì a far crescere il sostegno internazionale per il movimento anti-apartheid. Le violenze continuarono fino all’aprile del 1977. Una commissione d’inchiesta accertò, anni dopo, che a morire furono 575 persone, 451 uccise dalla polizia. Altre fonti sostengono, invece, che il numero delle vittime sia stato maggiore. In seguito alle proteste del 16 giugno, il governo decise che le scuole potevano usare la lingua di insegnamento che preferivano.

LE SCARPE DI HECTOR – Ma cosa accadde quel giorno? E come morì quello che all’epoca era ancora un bambino? La mattina del 16 giugno faceva freddo. In Africa era inverno. Intorno alle sei, Antoinette Sithole, sorella di Hector, uscì di casa per andare al punto di ritrovo prestabilito e partecipare alla manifestazione. Tutto si doveva svolgere in segreto, ma uno degli organizzatori del corteo aveva fornito alcuni dettagli ai media. Nzima, un fotoreporter di 42 anni che all’epoca lavorava per The World“un giornale fatto da neri per neri”, era lì per raccontare la giornata. La polizia cercò prima di deviare il corteo, poi di disperderlo con i gas lacrimogeni. «Tutti cominciammo a correre nella confusione, cercando un riparo e precipitandoci nelle case», ricorda Antoinette. Quando uscì dal nascondiglio che aveva trovato, vide suo fratello minore dall’altra parte della strada:

«Non doveva essere lì. Era troppo giovane per capire cosa stava realmente accadendo».

Lo raggiunse e gli disse che avrebbero trovato il modo di tornare a casa, rassicurandolo. Poi riprese a marciare. Nzima era proprio accanto a loro e, in quel momento, vide un poliziotto bianco puntare la pistola sulla folla. Fu un attimo. Nella confusione, Antoinette vide un uomo, Mbuyisa Makhubo, correrle accanto, con un bimbo tra le braccia. Riconobbe le scarpe di suo fratello (uno dei primi dettagli con cui molti parenti riconoscono le vittime dopo stragi o omicidi) e cercò di aiutarlo a caricare il corpo su un’automobile per portarlo in ospedale. Ma era troppo tardi.

When the shooting began, I went into hiding. When the shooting stopped, I came out of hiding when others came out. I saw [my brother] Hector [Pieterson] across the street, and I called him and waved at him. He came over and I spoke to him, but more shots rang out and I went into hiding again. I thought he followed me, but he did not come. I came out again and waited at the spot where I just saw him. He did not come. When Mbuyiso came past me a group of children were gathering nearby. He walked towards the group and picked up a body … And then I saw Hector’s shoes.
Antoinette Sithole, Tshesele High School

GUERRA CIVILE E MINACCE – Nzima scattò sei fotografie, riavvolse il rullino e lo nascose in una calza. Gli studenti stavano reagendo alle violenze, avevano preso un poliziotto, lo avevano buttato a terra e «macellato come una capra». Gli diedero fuoco, ricorda il reporter che immortalò anche quella scena. Alcuni agenti lo costrinsero a distruggere il rullino. «La foto del poliziotto ucciso dagli studenti andò perduta», spiega. Qualche ora dopo, Nzima sviluppò il rullino nascosto: in redazione si discusse molto se pubblicare l’immagine di Makhubo con il bambino morto tra le braccia e sua sorella accanto.

«Se usiamo questa immagine, scateneremo una guerra civile in Sudafrica», disse qualcuno. «Non c’è miglior esempio per dire quello che è successo a Soweto. I bambini sono stati uccisi dalla polizia dell’apartheid», sostennero altri.

Alla fine vinse questa seconda linea e The World uscì in serata con un’edizione straordinaria. Pochi giorni dopo, Nzima cominciò a ricevere minacce, si licenziò, scappò da Soweto, venne rintracciato e costretto ai domiciliari. Abbandonò per sempre la professione di giornalista. Il governo fece chiudere The World. Antoinette seppellì suo fratello due settimane dopo la morte, il 3 luglio. Makhubo, la cui famiglia era molto vicina alla figura di Nelson Mandela e all’African National Congress (il partito fondato nel 1912 da membri della popolazione nera – in opposizione al governo guidato dai bianchi del National Party – protagonista di scioperi, boicottaggi e anche attentati, tramite il suo “braccio armato”, la Umkhonto we Sizwe – MK, “Lancia della nazione”, dichiarato illegale negli anni Cinquanta) venne accusato di essersi messo in posa e di fare propaganda contro il governo. Colpito dalla depressione, lasciò il Paese.

 

 

 

 

 

16 giugno 1976 – La rivolta di Soweto, la strage che portò la fine dell’apartheidultima modifica: 2019-06-15T13:57:11+02:00da eles-1966
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